Le conclusioni degli esperti americani del NTSB sulla tragedia che provocò 81 vittime

Un oggetto misterioso incrociò in volo il DC-9 dell’Itavia precipitato a Ustica

Pur con cautela è questa la tesi più probabile dopo l’esame dei reperti e i riscontri dei radar di controllo – Esclusa la rottura di parti meccaniche, ma ancora da dimostare lo scontro nel cielo

ROMA – Le relazioni degli esperti americani sono caute, ma esplicite: «qualcosa» era in rotta di collisione con il Douglas DC-9 Itavia disintegrato nel cielo di Ustica la sera del 27 giugno 1980, un anno fa.
A leggerle, queste valutazioni del cervelli del National Transportation Safety Board (NTSB) di Washington – l’ente federale per il controllo e la sicurezza del volo negli Stati Uniti – ricordano l’atmosfera suggestiva e inquietante dei romanzi di Asimov o le inquadrature iniziali di «Incontri ravvicinati del terzo tipo» di Spielberg.
Ma non c’è fantascienza nella fredda analisi dei computer, piuttosto la certezza che quella sera il DC-9 non era da solo sulla rotta Bologna-Palermo.
Scrive John C. Macidull, ingegnere capo del Bureau of Technology, coordinatore del gruppo di ricerca sui dati messi a disposizione del NTSB dalla magistratura italiana: «Un oggetto non identificato ha attraversato la zona dell’incidente, da Ovest a Est, ad alta velocità e approssimativamente nello stesso momento in cui l’incidente stesso si è verificato».
E ancora: «Al momento dell’incidente e secondo le informazioni radar, l’oggetto non identificato (a Ovest della zona del disastro) procedeva con il sole alle spalle in direzione dell’aereo e l’aereo puntava verso il sole in direzione dell’oggetto».
Nella casistica degli incidenti aerei quello che corrisponde al Douglas DC-9 della compagnia Itavia occupa un capitolo a parte. Un «giallo » ancora senza soluzione. Ottantuno vittime, solo 39 corpi recuperati, la carcassa del velivolo in fondo al Tirreno e pochi frammenti a disposizione di tre commissioni d’inchiesta guidate da un magistrato (il sostituto procuratore della Repubblica di Roma Giorgio Santacroce) che dopo un anno sono ancora alla puntigliosa ricerca di un solo elemento per imprimere la svolta definitiva al lavoro di ricostruzione del disastro.
Dati alla mano, prima di riprendere in considerazione ogni ipotesi, ripercorriamo gli ultimi istanti del volo IH 870, corrispondente al DC-9 sigla I-TIGI (comandante Domenico Gatti, ufficiale pilota Enzo Fontana).
Sono le 18.57 minuti primi e 35 minuti secondi del 27 giugno 1980: il bireattore Itavia appare con un bip intermittente ai margini dello schermo del centro radio di Roma-Control-lo, una traccia luminosa che si trova esattamente nel punto «Condor» (94 miglia a Nord di Palermo e 80 miglia a Sud di Ponza), al centro dell’aerovia Upper Ambra 13, un corridoio nel cielo che porta diritto, in leggera discesa, fino a Punta Raisi.
Roma-Controllo è una moderna sala in una palazzina dell’aeroporto di Ciampino. Da qui i tecnici assegnano quote e smistano rotte per tutti gli aerei in volo tra l’Emilia e la Sicilia, fino a circa 15 chilometri dalle torri di controllo dei rispettivi aeroporti d’arrivo o partenza.
Il comandante Gatti ha già comunicato la sua quota (25.000 piedi, cioè 8.300 metri), la velocità (870 chilometri orari), le condizioni del tempo (buone, a parte un fastidioso vento da Ovest che soffia con una intensità di 200 chilometri orari). Alle 18.58 minuti primi e 11 minuti secondi ecco che la sua traccia radar risulta parallela a quella di un «oggetto non identificato», che vola a una distanza compresa tra «3,7 e 7,6 miglia» Ovest, quota sconosciuta e velocità elevata (fra 555 e 1300 chilometri orari, cioè anche oltre quella del suono).
Nessun «traffico» (aerei commerciali, nel gergo dei controllori di volo) è previsto in quel punto oltre al DC-9 Itavia. Eppure il radar non sbaglia, anzi. Dice ancora la relazione del NTSB: «Si considera significativo il fatto che qualcosa attraversava. ad alta velocità, l’area che poco dopo sarebbe stata occupata dai segnali radar indicanti frammenti dell’aereo. La direzione e la velocità di questo oggetto (o oggetti) erano le stesse di quello non identificato ma rilevato precedentemente a Ovest del punto dell’incidente».
Occorre fare un passo indietro. Nel punto «Condor» si incrociano diverse aerovie in cui spesso sfrecciano caccia supersonici. In particolare la Delta Whisky 12. che corre lungo la direttrice Alghero-Lamezia, da oves a est.
Alle 18.58 minuti primi e 39 minuti secondi l’oggetto non identificato si sposta proprio verso est, in direzione del DC-9. Alle 18.59 minuti primi e 45 secondi il bireattore Itavia scompare dallo schermo come traccia singola per frantumarsi in almeno quaranta schegge luminose che appaiono un attimo per poi essere inghiottite dal buio della notte. È l’istante preciso dell’incidente: l’aereo si disintegra in volo, afferma l’NTSB, e non ci sono elementi per sostenere l’ipotesi del cedimento strutturale.
Nessun allarme lanciato dal comandante, nemmeno il tempo di premere il pulsante del contatto radio. Le lesioni accertate sui corpi recuperati parlano di una decompressione esplosiva avvenuta in un tempo compreso tra 0 e 0,50 centesimi di secondo. Qualcosa di tremendamente rapido, non assimilabile alla rottura di una parte del velivolo che, nella sua gradualità, avrebbe forse consentito un ultimo disperato sos: precipitando da quella quota, prima dell’impatto con la superfice del mare, si impiegano alcuni minuti.
Leggiamo ancora un brano dell’analisi compiuta dal NTSB: «Al momento dell’ultimo segnale radar dell’aereo, i dati indicano che l’oggetto era a circa 5,7 miglia nautiche di distanza. A causa del cospicuo margine di errore per i radar a lunga distanza (in questo caso circa 120 miglia), esiste la possibilità concreta che la cifra data (5.7 miglia) sia sbagliata di molte miglia per difetto o eccesso».
Ma non è tutto. L’oggetto prosegue la sua corsa anche dopo l’incidente e viene registrato a meno di un miglio dal punto in cui è scomparso il DC-9: questo alle 18.59 minuti primi e 57 minuti secondi. Poi, cosi come è apparso, l’oggetto esce dallo schermo radar. Alle 19 e 3 minuti altre due tracce compaiono sul grafico, questa volta arretrate rispetto alle precedenti: non si sa come identificarle; un altro mistero.
Ma il vero problema di fronte al quale nemmeno il sostituto procuratore della Repubblica Santacroce ha potuto nulla è il buco di otto minuti nelle registrazioni radar, dopo la scomparsa del DC-9.
Alle 19 e 4 minuti il nastro magnetico nella base dell’Aeronautica di Marsala fu sostituito. Motivazione ufficiale: serviva a far addestrare alcuni allievi. Di fatto, fino alle 19 e 12 minuti l’oggetto o gli oggetti, anche se presenti nel cielo dell’Italia Meridionale, volarono senza testimoni.
Ed ecco le conclusioni che arrivano da Washington: «Sulla base delle informazioni ricevute, l’aereo disintegrato e l’oggetto non identificato non sono entrati in collisione» ma «un oggetto non identificato ha attraversato l’area dell’incidente da Ovest a Est ad alta velocità e approssimativamente nello stesso momento in cui l’incidente si è verificato».
Due tesi non in contrasto se, come sembra, l’ipotesi ormai privilegiata è quella di un razzo sganciato per errore da un caccia militare (non italiano, non alleato).
Unica via d’uscita per accertare la verità è il recupero della carcassa e dei frammenti del DC-9 in fondo al mare. Ma l’operazione costerebbe una cifra da capogiro: ben 12 miliardi, secondo il preventivo di una società privata specializzata in lavori a grandi profondità. Viceversa, nonostante gli scaffali pieni di perizie e pareri, grafici e interrogatori, sembra che la fine del DC-9 rimarrà avvolta da dubbi inquietanti, legati all’identità di quell’oggetto volante che non era certamente l’Ufo dei romanzi di Asimov.

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