STRAGE DI USTICA – In anteprima i risultati delle perizie effettuate dagli specialisti inglesi

Il missile centrò la cabina dei piloti

Ecco come fu provocata la tragedia del DC-9 (81 morti)

L’ordigno fu lanciato da un caccia militare – I servizi segreti americani e la Sesta flotta arrivarono subito a questa conclusione, informarono il ministero della Difesa italiana che rispose al giudice: nulla da segnalare

ROMA — Il missile aveva una spoletta di prossimità. Infatti è esploso qualche istante prima di centrare il DC-9 Itavia. La rosa di schegge sparate dal missile ha disintegrato la cabina di pilotaggio (quando l’hanno ripescata era ridotta a un grumo di cavi e congegni accartocciati). Le schegge hanno centrato anche il portello del vano bagagli anteriore destro (il numero uno). Hanno impresso l’ombra di una scura fiammata sulla lamiera esterna, l’hanno perforata in tre punti: buchi del diametro di un pompelmo, con il metallo piegato verso l’interno.
In tre secondi sono saltati l’impianto idraulico e quello elettrico. Per il Voice Recorder, appena il tempo di registrare sul nastro due vocali umane (una A, una U), un grido mozzato e incomprensibile. E un boato.
Col muso strappato, i motori bloccati (i tecnici della McDonnell Douglas hanno accertato che le due leve del carburante erano aperte), la violenta depressurizzazione all’interno della fusoliera e i passeggeri in stato di incoscienza o già morti, il DC-9 è precipitato in vite. Ha picchiato verso il mare e ha toccato l’acqua con la fiancata destra. L’ala si è spezzata, il motore destro si è schiacciato (le palette della turbina sono schizzate fuori).
Quando il relitto si è posato sul fondo (a 3.500 metri di profondità, tra Ponza e Ustica) il caccia assassino era già lontano. Protetto da una manovra rapida di rientro che lo aveva portato fuori dal controllo dei radar militari italiani (ufficialmente incapaci di vedere o in esercitazione o peggio ancora battuti).
Per gli specialisti della casa costruttrice (la McDonnell) che hanno catalogato ogni pezzo recuperato, lo spettacolo del relitto nell’hangar di Capodichino è stato agghiacciante: i piani di coda, la fusoliera, le ali, i motori sostanzialmente intatti ma la cabina di pilotaggio sventrata dalla rosa di schegge, con le leve di comando dei motori piegate e il sedile del comandante Fontana ridotto alle dimensioni di un palo di elenchi del telefono. Poi quel portello del vano cargo con i tre fori e la scia della fiammata, con la lamiera ripiegata all’interno della stiva dell’aereo.
Adesso il portello è nel laboratori del Rarde, il centro di inchieste e analisi sugli esplosivi britannico (dipende dal ministero della Difesa del Regno Unito ed è sotto il controllo dei servizi segreti). Assieme a molti altri pezzi del DC-9, a frammenti di tessuto che contengono particelle infinitesimali di schegge, ad una paratia (divideva la cabina di pilotaggio dal resto dell’aereo) che presenta una serie di fori sospetti.
Su questo materiale gli specialisti di Sua Maestà hanno lavorato e ancora lavorano da giugno. Per individuare tracce di esplosivo e risalire attraverso il composto chimico alla nazionalità del missile che ha provocato la strage del 27 giugno 1980 (ottantuno i morti).
Una prima serie di risultati è disponibile dall’inizio di agosto. Solo ieri, alcuni tra i periti italiani (e tra questi il comandante Plantulli, che rappresenta la parte civile) sono sbarcati a Londra. Per loro c’è una severa consegna del giudice istruttore Vittorio Bucarelli: non aprire bocca. La stessa consegna che il magistrato ha imposto ai tecnici americani e britannici.
Tuttavia le indiscrezioni sono filtrate e le voci ormai rimbalzano da Long Beach (California) a Londra, a Napoli (dove risiede e lavora la maggior parte del periti, guidati dall’impenetrabile professor Blasi) a Roma, a Washington (dove il Voice Recorder è stato aperto e ascoltato nel laboratori del Ntsb).
Poche settimane dopo la strage, gli investigatori della casa costruttrice americana avevano già concluso la loro inchiesta riservata, con la collaborazione del servizi segreti americani e del vertici della Sesta Flotta (il DC-9 era esploso al centro dell’ombrello radar della US Navy), il risultato escludeva categoricamente ogni cedimento strutturale e attribuiva ad un missile la causa del disastro. Per anni nessuno richiese alla Sesta Flotta le registrazioni radar né una copia dell’inchiesta riservata alla McDonnell Douglas. E quando la richiesta fu formalizzata, tutto passò attraverso il filtro del nostro ministero della Difesa. Risposta al giudice: nulla da segnalare.
Nulla da segnalare (secondo i nostri stati maggiori) anche sul comportamento dei centri di avvistamento radar: quello di Marsala (dove si sono perse, tra mille contraddizioni del personale militare, le copie degli ordini di servizio dell’esercitazione che avrebbe impedito al nostri operatori di «bloccare» sul radar il caccia assassino), quelli di Licola (che non «vedeva» fino ad Ustica) e di Perdasdefogu (troppo lontano anche questo).
Spazzato via da De Mita e Zanone l’alibi del segreto di Stato o militare, Palazzo Chigi promise a giugno di offrire al magistrato collaborazione e documenti. Una parte sono arrivati, altri sarebbero ancora «in viaggio». Ma senza più giustificazione.
Perché tutti i risultati delle perizie e tutti i documenti arrivino sul tavole del giudice istruttore c’è dunque ancora tempo. È il tempo che lavora da otto anni contro la giustizia e a favore del responsabili diretti e indiretti della strage di Ustica.
Il magistrato e i periti vogliono raggiungere la certezza che nulla all’infuori di un missile ha potuto provocare il disastro. L’avranno, e sarà provata da almeno un paio di camion carichi di carte e reperti da mostrare nell’aula del tribunale. Più difficile sarà mettere le mani sul colpevole e chi lo ha protetto (con accordi a livello internazionale?). Allora il «caso Ustica» diventerà un boomerang solo politico. E Impossibile da schivare.

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